Italo Testa
Individualità e critica
"La società degli individui", anno III, 2000/3 - Copyright La società degli individui
La questione dell'individuo, nel suo rapporto con la società e le sue forme di organizzazione, è forse il centro nascosto della teoria critica francofortese. Nella voce dedicata all'"Individuo" dei Soziologische Exkurse, testo collettivo dell'Institut für Sozialforschung (1956) che raccoglie conferenze risalenti al biennio 1953-54 - dunque appena successive ai due contributi di Adorno (1951 e 1953) presentati in questa sezione - il rapporto tra l'individuo e la società viene definito come il "tema centrale" della sociologia, disciplina le cui teorie andrebbero valutate in base alla loro capacità di penetrare tale relazione. Si tratta di riconoscere l'essenziale reciprocità che sussiste tra individuo e società, senza cedere alla tentazione di assolutizzare uno dei due termini, sia nel senso dell'individualismo atomistico, che in direzione della subordinazione dell'individuo alla totalità sociale operata dalla sociologia classica. La comprensione "dell'azione reciproca che individuo e società esercitano l'uno sull'altra" ha come conseguenza fondamentale che "l'uomo come individuo giunge alla sua esistenza proprio solo in una società giusta e umana", ordinata cioè secondo ragione in vista del "pieno svolgimento delle forze individuali". Il modello di una società di individui e per gli individui sembra fornire dunque un orientamento critico-normativo alle analisi sociali dei francofortesi: la relazione storica tra individuo e società incorpora l'ideale di una società giusta e umana, ma nello tempo è lo spazio entro il quale si annidano le premesse per i più brutali esperimenti di cancellazione dell'umano. E' proprio alla luce di questa consapevolezza che Adorno nel 1951, in conclusione del suo saggio inedito su Individuum und Staat, sostiene che la comprensione del rapporto problematico tra individuo e Stato a partire dalla sua radice nel processo vitale della società - di cui lo Stato costituisce la suprema forma di organizzazione - è forse il compito più importante che le scienze sociali si trovano a dover affrontare all'interno del generale processo della ricostruzione postbellica. Secondo Adorno dunque "l'individuo e lo Stato non stanno solo in opposizione l'uno con l'altro, ma si condizionano reciprocamente", e questa tensione è la matrice stessa di una dialettica che percorre la storia della civiltà sin dalle sue radici greche. A questo proposito è estremamente significativa la testimonianza di Leo Löwenthal (1900-1993) - amico di gioventù di Adorno e collaboratore dal 1926 dell'Institut für Sozialforschung - il quale in una conferenza del 1978 su Adorno und seine Kritiker, ricorda come il "sogno teorico" dei francofortesi fosse che, alle opere collettive sull'autoritarismo degli anni 30 e 40, facesse seguito una indagine comune sull'individuo e sulla sua caduta nell'età borghese. Questo progetto non si realizzò - e in un certo senso potremmo considerare i saggi qui presentati come frammenti afferenti a quell'opera che non vide mai la luce; ma alla fine, secondo Löwenthal, la questione dell'individuo rimase il "filo conduttore [Leitperspektive]" delle indagini sue e di Adorno. Il conflitto tra l'individuo e le forme sociali di organizzazione, sia che esso si manifesti nei termini di una estraniazione degli individui dalla vita dello Stato - presa in analisi in Individuum und Staat - sia che assuma il volto demoniaco della disgregazione sistematica dell'individuo ad opera del terrore fascista - di cui si occupa Leo Löwenthal nel suo saggio del 1946 su Individuum und Terror - si rivela dunque come l'oggetto privilegiato di una teoria critica della società che intenda penetrare la costellazione storica del presente a partire dalla sua radice problematica. Per comprendere nella loro effettiva portata i problemi che le democrazie occidentali devono poter padroneggiare è necessario collocarli entro una dinamica storica di lungo corso - di cui i regimi totalitari "di entrambi i colori" rappresentano la cruenta estremizzazione - e che ha al suo centro la questione dell'individuo. In particolare nel saggio del 1953 su Individuum und Organisation - che sviluppa molti dei temi presenti nel testo del 1951 - Adorno coglie la tendenza fondamentale del presente nel venir meno di quella spinta all'individuazione, di quello "stato in cui la vita stessa della società stessa si attendeva l'indipendenza e l'iniziativa degli individui",attesa d'indipendenza che aveva costituito uno degli assi portanti della società moderna borghese. La minaccia radicale del presente consiste dunque nella progressiva restrizione ed atrofizzazione dell'individualità, per la quale non c'è più alcuna ricompensa, ma che viene concessa come un lusso e sempre più guardata come sospetta deviazione. A fronte di questa situazione connotata pessimisticamente la teoria critica non si limita, per parafrasare i Minima Moralia, ad essere solidale con l'individuo nell'attimo della sua caduta: nei tre saggi presi in esame è avvertibile anche un intento propositivo, fattivo, che ben si lascia esprimere dall'affermazione di Adorno in Individuum und Organisation, secondo la quale si tratterebbe di "aiutare l'individuo". Questo compito non può però essere assolto semplicemente appellandosi all'individuo, protestando a suo nome, nell'illusione che la minaccia possa essere superata attraverso il richiamo ad una pretesa libertà interiore ed energia spirituale immune da influenze esterne, attraverso la protezione, a mo' di oasi naturale, dello spazio individuale. Si tratta piuttosto di riconoscere i "veri legami che sussistono tra la dimensione pubblica e il destino individuale", rendendo consapevoli gli uomini della posizione in cui la coazione li esilia, perché solo se essi riconoscono sino in fondo la situazione di impotenza cui sono condotti possono cambiarla. La teoria si assume dunque il compito di risvegliare e promuovere processi di consapevolezza critica e di autoriflessione. A questo proposito l'individualità gioca di nuovo un ruolo decisivo, dato che, come Adorno sottolinea più volte, il terminus ad quem della comprensione che la teoria critica deve promuovere e della prassi rivolta al meglio che essa può attivare - dunque il soggetto dell'autoriflessione critica - è proprio la "coscienza individuale". Quest'ultima deve venir sottratta alla "cecità del destino individuale" e all'apparenza che la vuole mero oggetto e non soggetto dei processi storici; è nella coscienza individuale che può e deve venir "risvegliata la resistenza contro l'organizzazione". Infatti, in una situazione in cui i poteri collettivi "usurpano lo spirito del mondo", l'elemento universale e razionale sembra sopravvivere meglio in singoli isolati; la stessa idea di "un mondo più degno dell'uomo", di un "ordine razionale della sfera pubblica", può maturare solo nell'ambito - ormai superato dalla vita - della coscienza indivuale: giacché "la coscienza individuale che conosce il tutto in cui gli uomini sono incapsulati, è anche oggi non semplicemente individuale, ma tiene fermo l'universale come conseguenza del pensiero". L'individualità si rivela dunque come la condizione di possibilità stessa della critica, che la teoria deve portare a riflettere su se stessa, ricostruendone la genesi storica e normativa. A questo fine sono volte le diagnosi storico-antropologiche contenute nei tre saggi presi in esame. Nei due scritti di Adorno viene tracciata una storia del conflitto tra individuo e organizzazione sociale, che nel contempo è una storia dell'ascesa e della crisi dell'individualità. Sin dai primordi l'esigenza di autoconservazione ha spinto necessariamente la specie umana a dotarsi, come mezzo di sopravvivenza contro le potenze naturali esterne e interne, di forme di organizzazione sociale che - nei termini del Disagio della Civiltà di Freud - comportano una massiccia dose di repressione. La genesi antropologica dell'individualità sembra connotata da un elemento oppositivo: l'individualità emerge laddove si leva la protesta contro la rinuncia che l'organizzazione sociale impone ai suoi membri e contro la corruzione e il dominio che si annidano dietro la pretesa di razionalità della struttura statale. L'organizzazione non è però un destino inesorabile, né è di per sé irrazionale, ma è piuttosto una necessità antropologica in cui la ragione umana gioca una sua parte: essa consiste essenzialmente nella razionalità conforme ad uno scopo, vale a dire nella ragione strumentale. Come tale l'organizzazione non sta solo in conflitto con l'individualità umana, ma le è anche identica, consistendo nel perseguimento pianificato dello scopo umano dell'autoconservazione collettiva. La tensione dialettica tra individualità e organizzazione prende una piega minacciosa quando l'organizzazione, seguendo una sua tendenza connaturata, si autonomizza, contrapponendosi "alla vita immediata degli uomini come qualcosa di relativamente indipendente": allora sorge il rischio che l'organizzazione non persegua più quegli scopi razionali e umani che giustificano la sua esistenza, ma che si subordini al dominio e all'irrazionalità. Con ciò gli individui, che sono i soggetti cui l'organizzazione deve rispondere e attraverso i quali si riproduce, corrono il rischio di venire ridotti unicamente al ruolo di oggetti, di organi, di meccanismi di un ingranaggio che diviene scopo a se stesso. Questo duplice carattere dell'organizzazione, razionale ed irrazionale, soggettivo ed oggettivo, le era proprio già nell'antichità e nel medioevo, ma viene percepito nel suo aspetto minaccioso e sconcertante solo in seguito all'incremento del potere di disposizione consentito dai mezzi della tecnica moderna. A questo proposito è importante sottolineare come la condizione che rende possibile riflettere criticamente su questo carattere ancipite dell'organizzazione è proprio lo sviluppo moderno dell'individualità: per Adorno, infatti, una conversazione critica su questo problema sarebbe impensabile senza presupporre "uno stato già incomparabilmente molto progredito dell'organizzazione e quindi il motivo della libertà individuale". Certamente nell'antichità era già in atto già un conflitto tra l'organizzazione e l'individualità, ma tale contrasto può essere portato al concetto solo quando si è dispiegato storicamente il "potenziale" critico della libertà individuale. La stessa storia della costituzione dell'individualità viene però indagata da Adorno nel suo duplice carattere, da un lato cioè come dispiegamento della razionalità critica, rischiaramento, dall'altro come processo in cui "attraverso la sua emancipazione sfrenata l'individuo prepara il terreno alla sua stessa oppressione". Così nell'antichità, quanto più l'individuo, già prima dell'ellenismo, viene posto al centro e la sua felicità e il suo interesse determinati come il bene più alto, tanto più esso si estranea dalla vita statale, mentre si perde di vista una forma di organizzazione sociale in cui tali interessi venivano effettivamente protetti. Ma è solo con la modernità, in seguito all'allentarsi dei legami teologici, che viene coniato il concetto di individuo; anzi, "l'individuo stesso, come il suo nome viene usato sino ad oggi, risale secondo la sua sostanza specifica a non molto prima di Montaigne o di Amleto, tutt'al più al primo rinascimento italiano". La nuova economia di libero mercato, soppiantando il sistema feudale, richiede oltre a nuove figure professionali anche un nuovo tipo antropologico, che è appunto l'individuo, a cui si lega una nuova concezione della morale, facente perno sulla responsabilità personale e sull'autodeterminazione razionale. Questa dinamica, se da un lato costituisce la premessa per lo sviluppo della critica razionale, dall'altro comporta anche un inasprimento, rispetto all'antichità, dell'estraneità dell'individuo verso la vita dello Stato. Mentre nell'antichità gli individui si potevano ritirare nel loro spazio privato, al riparo dagli eventi storici, nella modernità, in una società incomparabilmente più socializzata in tutti i suoi sistemi, tutte le decisioni politico statali toccano direttamente il destino individuale e l'individuo si estranea dalla vita statale avendo la sensazione di non poter più nulla di fronte all'onnipotenza dell'organizzazione statale. Sulla base di questa analisi, come si è già accennato, sia Adorno che Löwenthal vedono nell'epoca presente, cioè il periodo postbellico, il momento storico in cui, a fronte di una nuova realtà economica basata sulle concentrazioni industriali nei paesi capitalisti e sulla produzione collettiva nel blocco socialista, il concetto di individuo "raggiunge i suoi limiti storici", venendo meno quella spinta all'individuazione che aveva caratterizzato tutta la modernità. A questo proposito Löwenthal scrive che "la discrepanza tra le tradizioni morali dell'individualismo e i crimini di massa del collettivismo moderno ha esiliato l'uomo moderno in una terra di nessuno morale". La tradizione dell'individualismo morale, con i concetti ad essa connessi di coscienza morale, rispetto per se stessi, dignità umana, è stata privata della sua base sociale, cioè la società borghese liberale, e ciò espone l'uomo contemporaneo ad una situazione di disorientamento in cui i valori dell'individualità minacciano di essere cancellati. Qui ritornano le classiche tesi francofortesi circa la continuosìità tra produzione di massa, totalitarismo e industria culturale (o cultura di massa, come Löwenthal preferisce chiamarla). Il sistema del terrore di cui parla Löwenthal significa appunto l'atomizzazione dell'individuo, ovvero la liquidazione sistematica delle basi sociali e delle strutture psicologiche dell'individualità moderna, che è divenuta ormai un ostacolo per il nuovo sistema economico. Il saggio di Löwenthal, steso nel 1945, a fronte delle prime testimonianze dirette sulla vita nei Lager - risalente dunque ancora alla fase dell'esilio americano dell'Institut - anticipa così quelle tesi che prenderanno la loro forma classica nella celebre Dialektik der Aufklärung (1947). Nella sezione su gli Elementi dell'antisemitismo - che è poi la parte dell'opera cui Löwenthal contribuì direttamente - Adorno ed Horkheimer mostreranno come la civilizzazione fondata sul rigido divieto della mimesi, cioè dell'adesione organica all'altro, alla naturalità, assuma alla fine, con l'apparato della tecnica moderna - di cui il fascismo è la violenta estremizzazione - la struttura del "terrore". Quest'ultimo, attraverso la liquidazione sistematica della coscienza individuale, realizza infine un regresso mimetico alla cieca violenza della naturalità. Löwenthal, pioniere della sociologia letteraria e dell'analisi della cultura di massa - di lui si ricordino almeno il fondamentale Literatur und Massenkultur e lo studio Prophets of Deceit (1949), coordinato assieme a Normann Gutermann nell'ambito di quegli Studies in Prejudice che l'ormai Institut of Social Research ha condotto negli anni 40 dell'esilio americano - anticipa questa lettura del fascismo nei termini di una psicanalisi alla rovescia - esercitata en plen air nei Lager nazisti - che al super-ego sostituisce un "Hitler-ego", e anziché promuovere un processo di maturazione dell'autonomia individuale, si prefigge di annullarla sistematicamente, rafforzando una dipendenza passiva da un apparato che assume le sembianze pseudo-individuali di un capo carismatico. Nei regimi totalitari dunque, l'ambivalente rapporto tra individuo e organizzazione di cui parlava Adorno in Individuum und Organisation, si scioglie completamente dal lato oggettivo, e gli uomini sono ridotti esclusivamente al ruolo di ingranaggi, meri materiali di manipolazione, cui non resta altro profilo psicologico che quello del brutale istinto autoconservativo. Questa minaccia non è semplicemente tramontata con la sconfitta del nazifascismo, e rimane latente anche nel mondo libero della cultura di massa. Questa analisi non è però unilateralmente pessimistica: soprattutto Adorno non solo riscontra nella tradizione anglosassone un modello virtuoso di rapporto tra individuo e Stato, ma anche, in polemica con le filosofie irrazionalistiche della tecnica, in particolare con Spengler e Heidegger, sottolinea con forza come il nuovo sviluppo dell'organizzazione contenga in sé potenziali inauditi di razionalità, di cui gli uomini devono riappropriarsi. Questo attitudine dialettica verso l'oggetto del pensiero coinvolge la stesso destino dell'individualità, la quale, per esser venuta meno la sua forma borghese, non cessa di essere il punto di riferimento. Perciò Adorno può definire nella Dialektik der Aufklärungl'individuo autonomo come un "fenomeno del passato borghese" e insieme sostenere, nel Resumé ueber Kulturindustrie (1963), che la formazione di "individui autonomi e indipendenti [...] è il presupposto di una società democratica". L'individualità riuscita rimane dunque sino alla fine la condizione della critica e la premessa di una società umana, cioè di una società di individui e per gli individui. Se lo spirito del mondo si è in un certo senso fatto carico di mostrare la cecità del marxismo ortodosso, che in questa difesa dell'individuo sospettava una nostalgia snobistica per la cultura alto-borghese, più raffinata sembra la critica di Habermas ai suoi maestri, nelle cui opere egli riscontra - a partire dal Discorso filosofico della modernità - la permanenza di un paradigma soggettivistico che non è stato in grado di aprirsi alla svolta intersoggettiva e linguistica della filosofia contemporanea. A questo proposito va però notato che anche per i francofortesi della prima generazione l'individuazione si compie mediante socializzazione, dunque intersoggettivamente. Adorno e Löwenthal pensano l'individuo come "persona", vale a dire, come è detto chiaramente nei Soziologische Exkurse, come una autocoscienza che si individua in processi interattivi di riconoscimento: l'azione reciproca tra individuo e società significa appunto che l'autocoscienza del singolo è sempre un'autocoscienza sociale, che può rapportarsi a sé solo in quanto si riferisce ad altri. Il paradigma intersoggettivo non era in tal senso estraneo alla teoria critica della prima generazione -come risulta anche dalle trascrizioni dei seminari...- costituendo la sua principale eredità hegeliana: il che comportava un'attitudine a comprendere dialetticamente la stessa dimensione intersoggettiva; anzi ad individuare nella tensione tra individuo e società la vera matrice antropologico-storica del pensiero dialettico. Sicché, nelle contraddizioni performative che Habermas trova nei suoi maestri, sembra essere in gioco qualcosa di più profondo che non un astratto cambio di paradigma: giacché, come avevano compreso Adorno, Horkheimer e Löwenthal, l'intersoggettività può essere una fonte normativa, ma nello stesso tempo può rivelarsi come il luogo dell'orrore.