Discorso di Alessandro Ferrara - Cortona, 17 Ottobre 2014
Vorrei dire due parole per festeggiare la venticinquesima volta che ci riuniamo. Un quarto di secolo non è poco, soprattutto visto che qui non c'è un'istituzione che finanzia nulla, ognuno paga per sé, inclusi coordinatori e fondatori. Per me personalmente è una grande soddisfazione ritrovare gli amici con cui abbiamo iniziato e gli altri che si sono aggiunti man mano, e un pensiero va subito a quelli che non possono più essere qui con noi a festeggiare: Giovanni Clemente, Flavio Cassinari, Vanna Gessa, padre Pirola, Lorella Cedroni, Massimo Rosati, Alessandro Bellan. E' una soddisfazione in particolare perché – e parlo qui ai più "senior" – siamo cresciuti insieme. Eravamo ricercatori e qualcuno neanche era dentro l'università quando abbiamo iniziato, abbiamo percorso tutte le tappe della carriera, senza mai dividerci, il che non è proprio così scontato, almeno per chi conosce l'università. Vuol dire che qualcosa ha fatto premio su ogni altra spinta, ci ha tenuto uniti per tutto questo tempo.
Ma non volevo prendere la parola solo per dire quanto sono contento. Volevo anche condividere un pensiero con voi, questa sera, riguardo a cosa veramente festeggiamo.
Secondo me oggi festeggiamo il fatto che in questi 25 anni siamo riusciti a far rivivere, prima a Gallarate e poi qui a Cortona, lo spirito dell'università al suo meglio, l'università come modo di vivere, cui molti di noi hanno dedicato la vita. Siamo fra i tanti eredi – nel piccolo di una comunità di persone che si interessano di teoria critica – dei grandi ideali dell'università humboldtiana.
In un libro del 2013, Dynamics of the Contemporary University, basato sulla sua Clark Kerr Lecture, Neil Smelser ripercorre la storia dell'università moderna e ci offre due riflessioni importanti.
La prima è che fin dai suoi albori l'università è cresciuta sempre per giustapposizione di strutture ["blistering", letteralmente per creazione di vesciche] più che per differenziazione di organi. Smelser parla dell'università americana, ma non è una differenza importante, perchè l'università americana delle origini – pensiamo a Harvard (1636), Yale (1701) e Princeton (1726) – ricalca la struttura delle consorelle europee medievali e rinascimentali: Bologna, Parigi, Oxford, Cambridge, Salamanca, Padova, Coimbra, Napoli, Praga, Cracovia.
In principio era "la facoltà" e il "baccalaureat" o "laurea", e l'offerta fondamentale era il corso che conduceva a quel titolo. E poi anche il titolo di "dottore", conferito a Parigi per la prima volta attorno al 1200 e in America a Yale per la prima volta nel 1861.
Dalla fine del XIX secolo inizia l'ascesa di una struttura nuova, il dipartimento monodisciplinare, ispirato all'ideale humboldtiano della convergenza di ricerca e didattica, che diventerà l'ossatura dell'università contemporanea. Mentre altrove il dipartimento eclissa le facoltà, che sopravvivono come "schools" prive di qualsiasi vitalità, da noi le due strutture convivono in simbiosi fino a ieri praticamente. Ma soprattutto negli Stati Uniti, per effetto dell'azione filantropica delle grandi fondazioni private (Rockefeller, Russell-Sage, Carnegie-Mellon) e anche dell'intervento del governo federale, la struttura degli atenei vede proliferare, accanto alle "schools" e ai dipartimenti, anche i centri di ricerca, talvolta iperspecializzati, talvolta invece interdisciplinari. Un dipartimento si arricchisce e dialoga in continuo con centri di ricerca suoi propri o di ateneo, centri di ricerca che talvolta acquisiscono una visibilità esterna e una capacità di attrarre fondi anche superiore agli stessi dipartimenti.
Negli ultimi decenni però le università hanno aggiunto molte nuove strutture, giustapposte alle vecchie: attività di ricerca in conto terzi, sponsorizzate; imprese di spin-off gestite da docenti; filiali internazionali del proprio ateneo; corsi a distanza (novità fortemente sottovalutata, che fornisce una cerniera con il mondo di chi lavora ma sono anche la base su cui sono sorte imprese universitarie "for-profit", le telematiche a bassa qualità scientifica, che spesso stanno all'istituzione universitaria come i mutui subprime tossici stanno al credito serio); e, ancora, summer schools; attività di presenza diretta nel mondo culturale e artistico, con musei e teatri di propria gestione; attività sportive con partecipazione a campionati anche ad alta visibilità; associazioni degli "alunni" volte a ottenerne donazioni e fargli "fare rete"; attività di "continuing education" o "terza missione" rivolte al pubblico di tutte le età; attività editoriali in proprio (le University Press); agenzie interne di monitoraggio (i "Nuclei di valutazione") della qualità al fine di salvaguardare e migliorare il posizionamento di un'università nei rankings ufficiali; nonché uffici stampa che curano l'immagine pubblica dell'università. Paradossalmente, persino la recessione ha avuto come risultato la crescita di nuovi organismi interni, che ora sovraintendono ai tagli della spesa.
Siamo dunque lontani anni-luce dall'università dei tempi di Kant, come insieme di poche facoltà con un senato accademico e un rettore. Non esiste ritorno possibile: le strutture gemmate dalle altre o sorte dall'incontro via via con l'industria, con la società civile, con la competizione globale, non possono essere disfatte. La diagnosi di Smelser, University Professor del miglior sistema universitario pubblico degli Stati Uniti, la University of California, non potrebbe essere più sconsolata:
Il pubblico e i politici ci affamano, la tenure va scomparendo con la proletarizzazione della forza lavoro accademica, l'idea dell'università è erosa dalle forze del mercato e dalla aziendalismo, e siamo minacciati dalla crescita spettacolare di università on-line, for-profit e di qualità discutibile, Smelser, Dynamics, p. 2 [corsivo mio]
La seconda idea è che il centro valoriale dell'istituzione universitaria – quello cui di solito ci si richiama nei rituali accademici – ha un legame profondo con una moralità che attinge al sacro e alla religione. Per molto tempo la teologia è stata materia centrale del curriculum, e molte università medievali sono nate dalla costola della "cathedra" istituita nella "cattedrale" per la riflessione teologica e l'istruzione dei chierici (come disposto dal Concilio Lateranense III, del 1175). Parigi deve la sua fama iniziale alle sue scuole teologiche, già operanti nella cattedrale di Notre Dame. Come sottolinea Smelser, questo legame originario con le istituzioni religiose – monasteri e chiese – ha contribuito a conferire al concetto di università una coloritura che la pone in contatto con una dimensione quasi sacrale. L'ethos universitario del servire la verità prima di ogni altra cosa ha creato ordini di eccellenza immunizzati dalla concorrenza con altri valori, ha reso possibile pensare il lavoro di ricerca come una vocazione che ciascuno sente dentro di sè – Wissenschaft als Beruf, il lavoro intellettuale come professione – una vocazione che non può essere instillata a forza in chi non l'avverte.
L'università moderna del primo Ottocento e fino all'ultimo terzo del Novecento, figlia dell'Illuminismo e di Wilhelm von Humboldt, non ha più nulla a che vedere con la Chiesa, tranne che nelle private "università cattoliche", ma al suo interno sopravvive il senso di un contatto con valori e significati in qualche modo ultimi e sovramondani, codici etici di comportamento profondamente ascetici, che stigmatizzano ogni profanazione della "missione del dotto" con preoccupazioni mercantili o con compromissioni con il potere. Ricordo a questo proposito l'orgoglio, l'orgoglio della nostra diversità, con cui in Dialettica dell'illuminismo Horkheimer e Adorno citano Francis Bacon quando rivendica la superiorità del sapere, quel sapere in cui "sono racchiuse molte cose che i re con tutti i loro tesori non possono comprare, su cui la loro autorità non comanda, di cui i loro informatori non possono recare novella [intanto perché non le capiscono neanche]", Horkheimer e Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 12). Codici ascetici che invocano l'amore per la verità sopra ogni cosa, l'amore per i maestri e di questi per i loro allievi, e un ethos diffuso antimaterialista, vera vestigia monastica, cui non si può contravvenire senza sollecitare il biasimo. Chi di noi, se mai ne avesse la possibilità economica, si farebbe vedere con una Ferrari o uno yacht da 30 metri o un aereo privato? E come sarebbe visto dallo sguardo pubblico esterno all'università? La dimensione etica profonda del nostro modo di vita ispira la semantica del "tradimento", come termine associato al venir meno, da parte dei chierici o intellettuali, a questi codici.
Così è stato per oltre nove secoli, fino all'affermarsi dell'università neoliberale degli ultimi 30 anni, dove questa evoluzione ha subito una improvvisa torsione che ha snaturato l'istituzione universitaria in direzione di una commercializzazione dei suoi prodotti, della richiesta che ogni ateneo sopravviva competitivamente in una lotta per la ottimizzazione delle risorse, che produca lo stesso output con meno spesa, che agisca come un'impresa in contatto con il mondo delle altre imprese. Non occorre qui se non ricordare sommariamente i passaggi specifici di questa mutazione: la standardizzazione del carico di studio attraverso i crediti, la precarizzazione della docenza con il prevalere dei contratti a termine sulla tenure (come fenomeno mondiale), la presenza di manager professionali alla testa della governance delle università, il ridimensionamento dei senati accademici a fronte dei consigli di amministrazione con personale extra-accademico, la valutazione standardizzata finalizzata al ranking delle università e l'orientamento ex-ante della ricerca ai criteri della futura valutazione, la richiesta di deliverables e di profitability.
La valenza "colonizzatoria" dello stravolgimento neoliberale della missione del dotto nella mission dell'università ci appare in tutta la sua crudezza se solo immaginiamo cosa ne sarebbe della vita religiosa se alle congregazioni religiose e alle Chiese fosse imposto di competere le une con le altre sul parametro dell'offerta di salvezza, realizzando profitti mentre salvano anime, ed essendo valutate parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi, fino alla
comunità ecclesiale nel suo complesso, su parametri quantitativi di "capacità salvifica" – quale percentuale di fedeli accede al paradiso? – al fine di consentire ai fedeli di migrare verso quelle aree "di eccellenza" ove più alta è la possibilità di conseguire la salvezza.
Il vissuto di questa trasformazione è nei racconti che ascoltiamo dai colleghi nelle more dei convegni internazionali: negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna come in Danimarca, la macchina universitaria con cui quotidianamente abbiamo a che fare – l'università "normale" – è un groviglio di scadenze, moduli da riempire, adempimenti, applications, evaluations, riunioni all'insegna di una sospettosità più tipica di un condominio. In qualche caso si aggiunge anche l'insicurezza dovuta al fatto che la tenure non protegge dai tagli a tappeto di interi dipartimenti.
Per concludere: tutto questo era solo un lungo preambolo per dire che però lo spirito dell'università humboldtiana – cercare la verità insieme, per renderne tutti partecipi e al tempo stesso educare altri a cercarla – non è del tutto morto. È solo migrato.
È migrato dalle aule dove si erogano cfu e si fanno esami a quelle reti di studiosi che, come nel Medioevo, si spostano di qua e di là, di convegno in convegno, di paese in paese, a proprie spese, si conoscono e si seguono nel tempo, si conferiscono riconoscimento e non inseguono la visibilità, e arricchiscono a vicenda il loro lavoro con le idee degli altri, ascoltate con l'interesse disinteressato da sempre al centro dell'ethos di chi si dedica alla scienza come professione.
I luoghi che si chiamano università sono sempre di più soltanto i luoghi dove percepiamo il nostro stipendio, ma le nostre menti sono fecondate altrove, da quello che ascoltiamo in reti di ricerca vere, come questo nostro Seminario di Teoria Critica, di cui possiamo essere fieri che oggi compia 25 anni. Speriamo che possa durare per altrettanti.
Ma non volevo prendere la parola solo per dire quanto sono contento. Volevo anche condividere un pensiero con voi, questa sera, riguardo a cosa veramente festeggiamo.
Secondo me oggi festeggiamo il fatto che in questi 25 anni siamo riusciti a far rivivere, prima a Gallarate e poi qui a Cortona, lo spirito dell'università al suo meglio, l'università come modo di vivere, cui molti di noi hanno dedicato la vita. Siamo fra i tanti eredi – nel piccolo di una comunità di persone che si interessano di teoria critica – dei grandi ideali dell'università humboldtiana.
In un libro del 2013, Dynamics of the Contemporary University, basato sulla sua Clark Kerr Lecture, Neil Smelser ripercorre la storia dell'università moderna e ci offre due riflessioni importanti.
La prima è che fin dai suoi albori l'università è cresciuta sempre per giustapposizione di strutture ["blistering", letteralmente per creazione di vesciche] più che per differenziazione di organi. Smelser parla dell'università americana, ma non è una differenza importante, perchè l'università americana delle origini – pensiamo a Harvard (1636), Yale (1701) e Princeton (1726) – ricalca la struttura delle consorelle europee medievali e rinascimentali: Bologna, Parigi, Oxford, Cambridge, Salamanca, Padova, Coimbra, Napoli, Praga, Cracovia.
In principio era "la facoltà" e il "baccalaureat" o "laurea", e l'offerta fondamentale era il corso che conduceva a quel titolo. E poi anche il titolo di "dottore", conferito a Parigi per la prima volta attorno al 1200 e in America a Yale per la prima volta nel 1861.
Dalla fine del XIX secolo inizia l'ascesa di una struttura nuova, il dipartimento monodisciplinare, ispirato all'ideale humboldtiano della convergenza di ricerca e didattica, che diventerà l'ossatura dell'università contemporanea. Mentre altrove il dipartimento eclissa le facoltà, che sopravvivono come "schools" prive di qualsiasi vitalità, da noi le due strutture convivono in simbiosi fino a ieri praticamente. Ma soprattutto negli Stati Uniti, per effetto dell'azione filantropica delle grandi fondazioni private (Rockefeller, Russell-Sage, Carnegie-Mellon) e anche dell'intervento del governo federale, la struttura degli atenei vede proliferare, accanto alle "schools" e ai dipartimenti, anche i centri di ricerca, talvolta iperspecializzati, talvolta invece interdisciplinari. Un dipartimento si arricchisce e dialoga in continuo con centri di ricerca suoi propri o di ateneo, centri di ricerca che talvolta acquisiscono una visibilità esterna e una capacità di attrarre fondi anche superiore agli stessi dipartimenti.
Negli ultimi decenni però le università hanno aggiunto molte nuove strutture, giustapposte alle vecchie: attività di ricerca in conto terzi, sponsorizzate; imprese di spin-off gestite da docenti; filiali internazionali del proprio ateneo; corsi a distanza (novità fortemente sottovalutata, che fornisce una cerniera con il mondo di chi lavora ma sono anche la base su cui sono sorte imprese universitarie "for-profit", le telematiche a bassa qualità scientifica, che spesso stanno all'istituzione universitaria come i mutui subprime tossici stanno al credito serio); e, ancora, summer schools; attività di presenza diretta nel mondo culturale e artistico, con musei e teatri di propria gestione; attività sportive con partecipazione a campionati anche ad alta visibilità; associazioni degli "alunni" volte a ottenerne donazioni e fargli "fare rete"; attività di "continuing education" o "terza missione" rivolte al pubblico di tutte le età; attività editoriali in proprio (le University Press); agenzie interne di monitoraggio (i "Nuclei di valutazione") della qualità al fine di salvaguardare e migliorare il posizionamento di un'università nei rankings ufficiali; nonché uffici stampa che curano l'immagine pubblica dell'università. Paradossalmente, persino la recessione ha avuto come risultato la crescita di nuovi organismi interni, che ora sovraintendono ai tagli della spesa.
Siamo dunque lontani anni-luce dall'università dei tempi di Kant, come insieme di poche facoltà con un senato accademico e un rettore. Non esiste ritorno possibile: le strutture gemmate dalle altre o sorte dall'incontro via via con l'industria, con la società civile, con la competizione globale, non possono essere disfatte. La diagnosi di Smelser, University Professor del miglior sistema universitario pubblico degli Stati Uniti, la University of California, non potrebbe essere più sconsolata:
Il pubblico e i politici ci affamano, la tenure va scomparendo con la proletarizzazione della forza lavoro accademica, l'idea dell'università è erosa dalle forze del mercato e dalla aziendalismo, e siamo minacciati dalla crescita spettacolare di università on-line, for-profit e di qualità discutibile, Smelser, Dynamics, p. 2 [corsivo mio]
La seconda idea è che il centro valoriale dell'istituzione universitaria – quello cui di solito ci si richiama nei rituali accademici – ha un legame profondo con una moralità che attinge al sacro e alla religione. Per molto tempo la teologia è stata materia centrale del curriculum, e molte università medievali sono nate dalla costola della "cathedra" istituita nella "cattedrale" per la riflessione teologica e l'istruzione dei chierici (come disposto dal Concilio Lateranense III, del 1175). Parigi deve la sua fama iniziale alle sue scuole teologiche, già operanti nella cattedrale di Notre Dame. Come sottolinea Smelser, questo legame originario con le istituzioni religiose – monasteri e chiese – ha contribuito a conferire al concetto di università una coloritura che la pone in contatto con una dimensione quasi sacrale. L'ethos universitario del servire la verità prima di ogni altra cosa ha creato ordini di eccellenza immunizzati dalla concorrenza con altri valori, ha reso possibile pensare il lavoro di ricerca come una vocazione che ciascuno sente dentro di sè – Wissenschaft als Beruf, il lavoro intellettuale come professione – una vocazione che non può essere instillata a forza in chi non l'avverte.
L'università moderna del primo Ottocento e fino all'ultimo terzo del Novecento, figlia dell'Illuminismo e di Wilhelm von Humboldt, non ha più nulla a che vedere con la Chiesa, tranne che nelle private "università cattoliche", ma al suo interno sopravvive il senso di un contatto con valori e significati in qualche modo ultimi e sovramondani, codici etici di comportamento profondamente ascetici, che stigmatizzano ogni profanazione della "missione del dotto" con preoccupazioni mercantili o con compromissioni con il potere. Ricordo a questo proposito l'orgoglio, l'orgoglio della nostra diversità, con cui in Dialettica dell'illuminismo Horkheimer e Adorno citano Francis Bacon quando rivendica la superiorità del sapere, quel sapere in cui "sono racchiuse molte cose che i re con tutti i loro tesori non possono comprare, su cui la loro autorità non comanda, di cui i loro informatori non possono recare novella [intanto perché non le capiscono neanche]", Horkheimer e Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 12). Codici ascetici che invocano l'amore per la verità sopra ogni cosa, l'amore per i maestri e di questi per i loro allievi, e un ethos diffuso antimaterialista, vera vestigia monastica, cui non si può contravvenire senza sollecitare il biasimo. Chi di noi, se mai ne avesse la possibilità economica, si farebbe vedere con una Ferrari o uno yacht da 30 metri o un aereo privato? E come sarebbe visto dallo sguardo pubblico esterno all'università? La dimensione etica profonda del nostro modo di vita ispira la semantica del "tradimento", come termine associato al venir meno, da parte dei chierici o intellettuali, a questi codici.
Così è stato per oltre nove secoli, fino all'affermarsi dell'università neoliberale degli ultimi 30 anni, dove questa evoluzione ha subito una improvvisa torsione che ha snaturato l'istituzione universitaria in direzione di una commercializzazione dei suoi prodotti, della richiesta che ogni ateneo sopravviva competitivamente in una lotta per la ottimizzazione delle risorse, che produca lo stesso output con meno spesa, che agisca come un'impresa in contatto con il mondo delle altre imprese. Non occorre qui se non ricordare sommariamente i passaggi specifici di questa mutazione: la standardizzazione del carico di studio attraverso i crediti, la precarizzazione della docenza con il prevalere dei contratti a termine sulla tenure (come fenomeno mondiale), la presenza di manager professionali alla testa della governance delle università, il ridimensionamento dei senati accademici a fronte dei consigli di amministrazione con personale extra-accademico, la valutazione standardizzata finalizzata al ranking delle università e l'orientamento ex-ante della ricerca ai criteri della futura valutazione, la richiesta di deliverables e di profitability.
La valenza "colonizzatoria" dello stravolgimento neoliberale della missione del dotto nella mission dell'università ci appare in tutta la sua crudezza se solo immaginiamo cosa ne sarebbe della vita religiosa se alle congregazioni religiose e alle Chiese fosse imposto di competere le une con le altre sul parametro dell'offerta di salvezza, realizzando profitti mentre salvano anime, ed essendo valutate parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi, fino alla
comunità ecclesiale nel suo complesso, su parametri quantitativi di "capacità salvifica" – quale percentuale di fedeli accede al paradiso? – al fine di consentire ai fedeli di migrare verso quelle aree "di eccellenza" ove più alta è la possibilità di conseguire la salvezza.
Il vissuto di questa trasformazione è nei racconti che ascoltiamo dai colleghi nelle more dei convegni internazionali: negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna come in Danimarca, la macchina universitaria con cui quotidianamente abbiamo a che fare – l'università "normale" – è un groviglio di scadenze, moduli da riempire, adempimenti, applications, evaluations, riunioni all'insegna di una sospettosità più tipica di un condominio. In qualche caso si aggiunge anche l'insicurezza dovuta al fatto che la tenure non protegge dai tagli a tappeto di interi dipartimenti.
Per concludere: tutto questo era solo un lungo preambolo per dire che però lo spirito dell'università humboldtiana – cercare la verità insieme, per renderne tutti partecipi e al tempo stesso educare altri a cercarla – non è del tutto morto. È solo migrato.
È migrato dalle aule dove si erogano cfu e si fanno esami a quelle reti di studiosi che, come nel Medioevo, si spostano di qua e di là, di convegno in convegno, di paese in paese, a proprie spese, si conoscono e si seguono nel tempo, si conferiscono riconoscimento e non inseguono la visibilità, e arricchiscono a vicenda il loro lavoro con le idee degli altri, ascoltate con l'interesse disinteressato da sempre al centro dell'ethos di chi si dedica alla scienza come professione.
I luoghi che si chiamano università sono sempre di più soltanto i luoghi dove percepiamo il nostro stipendio, ma le nostre menti sono fecondate altrove, da quello che ascoltiamo in reti di ricerca vere, come questo nostro Seminario di Teoria Critica, di cui possiamo essere fieri che oggi compia 25 anni. Speriamo che possa durare per altrettanti.