Lucio Cortella
La fine dell'utopia
(Sintesi seminario 12.05.1999)
Nel 1967, davanti agli studenti di Berlino, Marcuse annunciava la fine dell'utopia. Non già nel senso del suo fallimento ma in quello della sua vicina realizzazione. Finito era infatti proprio il suo carattere utopico. Le condizioni della società contemporanea permettevano di pensare ad essa non più come ad un sogno ma come a qualcosa di possibile e di realizzabile. L'eterna aspirazione dell'uomo alla libertà, alla giustizia, alla felicità era lì a portata di mano. Noi oggi sappiamo quanto quell'annuncio fosse illusorio. Non solo abbiamo constatato l'irrealizzabilità di quelle istanze ma abbiamo cominciato a mettere in discussione l'idea stessa di una diversa forma di organizzazione sociale, l'idea stessa di rapporti sociali ed economici alternativi a quelli esistenti. L'ideale e il reale si sono nuovamente ricomposti. Davanti a noi c'è un solo mondo possibile, quello realmente esistente. L'utopia è veramente finita, e in un senso radicalmente contrapposto a quello inteso da Marcuse. Essa è diventata impensabile, irrappresentabile, inimmaginabile. Il crollo del muro di Berlino è diventato ormai il simbolo di questo profondo mutamento nell'immaginario ideologico-politico. Esso sancisce il fallimento dell'unico vero esperimento di organizzazione economica e sociale alternativa a quella capitalistica. Alla base di quel tentativo c'era un'idea in apparenza ragionevole e sensata, quella di porre sotto controllo i meccanismi dell'economia di mercato, al fine di evitarne le inevitabili disuguaglianze economiche, i pesanti costi sociali e l'irrazionalità connessa ad una libera competizione in cui il più forte è necessariamente destinato a dominare sul più debole. La proprietà collettiva dei mezzi di produzione era in questo quadro la condizione indispensabile per ricondurre l'irrazionalità di un'economia dominata da un cieco meccanismo al di sotto del controllo cosciente dei produttori, per sostituire cioè un'economia sostanzialmente anarchica con una pianificazione amministrativa, in cui fossero valutati razionalmente costi e benefici dell'iniziativa economica. L'idea guida era dunque quella di un controllo democratico dell'economia, di un dominio della razionalità e della volontà collettiva sull'irrazionalità di un mercato aperto alle scorribande di chiunque. Tuttavia questo grande progetto, lungi dal realizzare un incremento di democrazia, ha comportato sin da subito un pesante arretramento democratico e delle condizioni di libertà in generale. L'economia, invece di esser sottoposta alla volontà collettiva, si è trovata a dipendere da un apparato di tecnocrati sostanzialmente sottratto ad ogni controllo democratico. La politica ha subito un analogo processo involutivo, privando la collettività di qualsiasi partecipazione reale ai processi decisionali. Ma il lato più interessante si è manifestato all'interno del sistema economico stesso, in cui il passaggio dall'economia di mercato a quella pianificata non ha comportato una maggiore razionalizzazione ma una perdita totale di razionalità: sprechi, povertà generalizzata, inefficienze, disastri ecologici. Il crollo finale del sistema è venuto proprio da qui. Prima di quel crollo sistemico la critica di sinistra all'esperienza sovietica aveva preso di mira soprattutto il deficit democratico e di libertà (imputandolo alle condizioni storiche in cui era avvenuta la rivoluzione d'ottobre o ai limiti soggettivistici e autoritari del leninismo), ma non aveva quasi mai preso le distanze dall'idea della pianificazione economica, limitandosi semmai a proporne delle correzioni. Ora invece appariva evidente che l'errore del socialismo sovietico consisteva proprio nell'idea di fondo, derivata da Marx, di aver abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione. L'idea "ragionevole e sensata" di una sottomissione dell'economia al controllo politico rendeva infatti il processo economico molto più irrazionale ed incontrollato di quanto potesse accadere ad una economia di mercato. Proprio la volontà di controllare i processi economico-sociali si capovolgeva nell'opposto, ovvero nell'impossibilità di calcolare costi e benefici delle decisioni economiche, nell'incapacità di ottenere condizioni di vita migliori, nello spreco delle risorse umane e naturali. Si rivelava qui uno dei difetti della teoria marxiana, vale a dire un sotterraneo atteggiamento di rifiuto verso la complessità tipica dell'economia capitalistica, la critica alla differenziazione dei suoi processi (divisione del lavoro, separazione tra produttore e prodotto, moltiplicazione delle mediazioni) e la volontà di azzerare la pluralità di "ragioni" in conflitto nell'economia di mercato, sottomettendole alla ragione unitaria e centralizzata della volontà politica collettiva. Da questo punto di vista anche la teoria di Marx va collocata all'interno di quel generale movimento di reazione alla modernità che ha caratterizzato gli ultimi due secoli e che ha finito per contrapporre ai processi di differenziazione e di estraniazione del moderno l'utopia di un mondo nuovamente ricomposto, l'immagine consolatoria di una comunità solidale, l'idea di una società in cui i conflitti potessero trovare una loro definitiva conciliazione. Questa utopia, contrapponendo all'intero infranto della modernità la comunità dei produttori associati, racchiudeva in sé i tratti di un'utopia regressiva, ovvero il desiderio nostalgico di un ritorno alle comunità tipiche del mondo pre-moderno. La critica che Marx aveva rivolto al socialismo utopista e al "comunismo rozzo e primitivo" aveva in parte nascosto questo carattere, che finiva però per manifestarsi pienamente nella pratica del "socialismo reale". Qui l'abbattimento della complessità capitalistica assumeva i tratti di una violenta semplificazione dei meccanismi economici, resa ancora più evidente nella ricostituzione di forme di orga-nizzazione politica pre-moderne, di una concezione personalistica del potere, e nella negazione dei più elementari principi dello stato di diritto. Il sogno della comunità solidale assumeva i contorni da incubo di una società autoritaria, dominata dalla polizia segreta, dalla delazione e dal terrore. Il congedo dall'utopia che caratterizza questa fine secolo è dunque il congedo da un'immagine utopica che ha definitivamente rivelato i suoi tratti regressivi e antimoderni. Ma questa perdita non è in alcun modo sanabile. Noi non disponiamo infatti di una nuova immagine che possa sostituire o correggere la vecchia utopia ormai irrimediabilmente deteriorata. Non riusciamo a rappresentarci un futuro diverso dalla mera continuazione del presente. L'economia di mercato e l'assetto politico liberal-democratico sono diventati la cornice fissa, all'interno della quale sono certo possibili variazioni, progressi e regressi, un po' più di mer-cato o un po' più di stato, una maggiore competizione o una maggiore solidarietà, un incremento alla deregulation o l'insistenza sulla garanzia delle regole, ma al di fuori di questo contesto non è ragionevole pensare di poterci collocare. Vana è perciò qualsiasi lamentazione contro il pensiero "dominante" o contro il "pensiero unico", dal momento che ogni alternativa ad esso si riduce ad essere pura testimonianza di diversità o nostalgia di un passato condannato a rimanere tale. Non fa un buon servizio alla politica e neppure a se stesso il pensiero che si propone la raffigurazione di società ideali, perché qualsiasi fuga in avanti è destinata a riproporre le immagini consolatorie di un tempo perduto. Al pensiero rimane il compito essenziale di comprendere il presente. Ma comprenderlo non significa farne l'apologia. Al contrario, significa vedere lucidamente sia il carattere emancipativo della modernità sia la sua natura estraniante. La comprensione non esclude la critica ma la include come proprio momento essenziale. E questa è forse la vera difficoltà del compito che ci attende a questa svolta del secolo: saper prendere le distanze dall'esistente, rivelarne le insufficienze, senza poterci fondare sulla raffigurazione positiva di un futuro rassicurante. Ma nel difficile crinale di una critica senza utopia rivive il divieto biblico di farsi immagini di Dio e di pronunciarne il nome. Quel divieto indicava l'impossibilità di una rappresentazione umana di ciò che per definizione è irrappresentabile, l'indisponibilità di un'immagine che possa veramente consolare la nostra esistenza. Ma significava anche la presa di distanza da qualsiasi idolatria del presente, la proibizione di elevare il mondano alla dignità che spetta solo a Dio.